UFFICIO DI SORVEGLIANZA DI PADOVA 
 
 
                    IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA 
 
    Visto il reclamo, avanzato da  H.  E.,  nato  il  ...  a  Genova,
internato  presso  la  Casa  di  reclusione  di  Padova,  in   quanto
sottoposto alla misura di sicurezza della Casa Lavoro (fine misura 10
febbraio 2017); 
    Sentite le conclusioni del Pubblico  ministero  e  della  difesa,
all'esito della  procedura  prevista  dall'art.  35-ter  o.p.,  quale
introdotto dall'art. 3 del decreto-legge 23 dicembre  2013,  n.  146,
convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10  e
dall'art. 1 del decreto-legge 26 giugno 2014  n.  92,  convertito  in
legge 11 agosto 2014, n. 117, ed a scioglimento della riserva assunta
all'udienza del 3 marzo 2016, ha emesso la seguente ordinanza. 
    Con reclamo pervenuto all'Ufficio in  data  24  ottobre  2014  H.
avanzava reclamo ai sensi dell'art. 35-ter o.p.,  quale  detenuto  in
esecuzione del provvedimento di cumulo della Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Udine del 26 febbraio 2014, (inizio  pena:  25
febbraio  2014,  fine  pena:  11  dicembre  2014).  Nelle  more   del
procedimento, in data 12 dicembre 2014,  riprendeva  a  decorrere  la
misura di sicurezza della casa lavoro  applicata  con  ordinanza  del
Magistrato di sorveglianza di Udine del  29  settembre  2011,  misura
iniziata in data 8 dicembre 2011 (1) e sospesa dal 25  febbraio  2014
all'11 dicembre 2014 ai sensi dell'art. 212  del  codice  penale  per
espiazione del titolo detentivo citato. 
    H. insiste comunque nell'istanza ai sensi dell'art. 35-ter  o.p.,
quale internato, per la violazione dell'art. 3 Conv. Eur. Dir.  Uomo,
asserendo di aver subito, dal 13 gennaio 2007 una  restrizione  dello
spazio disponibile al di sotto dei 3 mq avendo dovuto condividere  la
cella  con  altri  internati  e  formula   esclusiva   richiesta   di
risarcimento del danno per la violazione dei diritti subiti durante i
periodi espiati come internato e nei sotto elencati istituti di  Pena
e Case lavoro, cosi' essendo stata riformulata la  domanda  da  parte
della difesa: 
        1) dal 13 gennaio 2007 al 29 maggio 2007  presso  la  Colonia
agricola di Isili (CA); 
        2) dal 29 maggio 2007 al 1° dicembre  2007,  dal  9  dicembre
2009 al 26 aprile 2010 e dal 9  dicembre  2011  al  2  febbraio  2013
presso la Casa lavoro di Sulmona; 
        3) dal 19 dicembre 2007 al 23 dicembre 2008 e dal 31 dicembre
2008 al 5 agosto 2009 presso la Casa lavoro di Castelfranco Emilia; 
        4) dal 3 febbraio 2013 al 24 febbraio 2014 e dal 12  dicembre
2014 ad oggi presso la Casa lavoro di Padova. 
    In via subordinata alla richiesta risarcitoria la  difesa  chiede
che il Magistrato di sorveglianza sollevi questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 35-ter o.p. per violazione degli articoli 3,
24 e 25 e 117 della Costituzione, in relazione agli articoli 6  e  13
CEDU, stante l'ammissibilita' e la rilevanza della questione stessa. 
    In via  preliminare  deve  essere  dichiarata  l'inammissibilita'
sopravvenuta del reclamo per i periodi di pena espiata e relativa  al
titolo detentivo in esecuzione al momento  della  proposizione  della
domanda, vale a dire il provvedimento di cumulo della  Procura  della
Repubblica presso il Tribunale di' Udine del 26 febbraio 2014 nonche'
l'inammissibilita' originaria del reclamo per i periodi di detenzione
antecedenti al 24 febbraio 2014, in quanto non  afferenti  all'ultimo
provvedimento di cumulo citato. 
    Deve altresi' essere dichiarata l'inammissibilita' del reclamo in
relazione ai periodi di internamento trascorsi precedentemente  all'8
dicembre 2011, poiche' relativi a misure di sicurezza gia' cessate  e
derivanti da altri titoli. 
    Deve  pertanto  procedersi  all'esame  dell'ammissibilita'  della
richiesta di risarcimento del danno esclusivamente per il periodo  di
internamento decorrente dal 9 dicembre 2011 al 24 febbraio 2014 e dal
12 dicembre 2014 ad oggi, posto  che  dall'istruttoria  espletata  e'
stata  raggiunta  la  prova  della  violazione  dell'art.   3   della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali per i periodi dal 2 febbraio 2013  al  7  marzo
2013 (pari  a  gg.  34  durante  l'internamento  presso  la  Casa  di
reclusione di Padova) e per 98 giorni durante  l'internamento  presso
la Casa di reclusione di Sulmona, essendo H. stato allocato in  celle
con uno spazio disponibile pro capite, inferiore a 3 mq, al netto del
bagno e dei  mobili  inamovibili  per  totali  gg.  132.  Di  qui  la
rilevanza in fatto della questione. 
    Invero l'art. 35-ter, o.p., sebbene rubricato «rimedi risarcitoti
conseguenti alla violazione dell'art. 3 della Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali
nei confronti dei soggetti detenuti ed internati», tuttavia al  comma
1, nella  sua  formulazione  letterale,  esclude  l'internato  tra  i
soggetti  legittimati   alla   proposizione   dell'istanza,   potendo
quest'ultima essere presentata dal detenuto (e  quindi  dal  soggetto
sottoposto a pena detentiva non a  misura  di  sicurezza  detentiva),
personalmente ovvero a mezzo di procuratore speciale. 
    Si  impone  pertanto   un   ulteriore   vaglio   preliminare   di
ammissibilita'   dell'istanza   alla   luce   di   un'interpretazione
costituzionalmente orientata dell'art. 35-ter  o.p.,  interpretazione
in base alla quale poter estendere tale tutela giurisdizionale  anche
all'internato, trattandosi di una sorta di «svista del  legislatore»,
come sostenuto in via principale dalla difesa. 
    Ritiene la scrivente che l'esegesi del testo non possa condurre a
tale conclusione. 
    Se da un lato non e' contestabile che l'ordinamento penitenziario
conceda  pari  dignita'   alle   due   categorie   del   detenuto   e
dell'internato, sotto il profilo del diritto  al  trattamento,  delle
spese per il mantenimento, delle condizioni di vita, del diritto alla
salute, dei locali di  soggiorno  e  pernottamento,  del  diritto  al
lavoro ed all'istruzione (art. 1-14 o.p.), tuttavia  appare  evidente
come lo stesso  art.  35-ter  o.p.,  abbia  individuato  quale  unico
soggetto legittimato il detenuto e cio' e' stato fatto in particolare
sia al comma primo, nella parte  in  cui  sono  stati  individuati  i
potenziali reclamanti innanzi alla magistratura di  sorveglianza  sia
al  comma  terzo  nella  parte  in  cui  sono  stati  specificati   i
legittimati  ad  esperire  l'azione  civile  innanzi   al   tribunale
distrettuale. 
    In entrambi i casi deve trattarsi di soggetti che stanno espiando
una pena detentiva o che l'hanno gia' espiata. Inoltre il comma terzo
dell'art. 35-ter o.p. fissa un termine di decadenza di sei  mesi  per
la proposizione dell'azione civile al Tribunale distrettuale, termine
che decorre dalla  cessazione  dello  stato  di  detenzione  o  della
custodia cautelare in carcere. 
    Tale interpretazione e' confermata altresi' dal  fatto  che,  ove
sia stata accertata la violazione dell'art. 3  CEDU,  il  ristoro  e'
rappresentato da  una  «riduzione  della  pena  detentiva  ancora  da
espiare» e, solo in via residuale, nel caso di pena incapiente,  vale
a dire inferiore ai giorni di riduzione di pena cui  il  soggetto  ha
diritto a titolo di ristoro - nella misura di 1/10 dei giorni in  cui
ha subito il pregiudizio - da una liquidazione di una somma di denaro
a titolo di risarcimento del danno  quantificata  in  €  8  per  ogni
giorno in cui il reclamante ha subito il pregiudizio. 
    Trattasi di una norma di stretta  interpretazione  letterale  che
non consente un'applicazione analogica. 
    La   domanda   principale   pertanto   deve   essere   dichiarata
inammissibile. 
    Ritiene questo giudice remittente non manifestamente infondata la
questione di legittimita' costituzionale della norma di cui  all'art.
35-ter o.p. nella parte in cui non prevede  un  rimedio  compensativo
effettivo nei  confronti  dell'internato  nei  casi  in  cui  si  sia
accertata la violazione dell'art. 3 CEDU, per violazione degli  artt.
3, 24, 25 e 117, comma 1 Cost. 
    La questione appare rilevante posto  che  nel  caso  concreto  il
magistrato di sorveglianza, adito dall'internato ai  sensi  dell'art.
35-ter o.p.,  si  trova  nell'impossibilita'  di  concedere  sia  una
riduzione di pena, trattandosi di  misura  di  sicurezza  -  peraltro
senza termine massimo di durata - sia un ristoro  economico  dovendo,
si ripete, lo stesso, presupporre l'incapienza della pena da espiare. 
    Invero l'internato, quale  soggetto  sottoposto  alla  misura  di
sicurezza detentiva della casa lavoro, fattispecie  quest'ultima  non
soggetta ad un termine massimo di durata (con l'eccezione  introdotta
per le sole misure di  sicurezza  psichiatriche  detentive  ai  sensi
dell'art. 1, comma 1-quater, decreto-legge  31  marzo  2014,  n.  51,
convertito in legge n. 81/2014)  (2)  non  otterrebbe  alcun  ristoro
dalla riduzione della sua durata disposta ai sensi  dell'art.  35-ter
o.p. potendo il magistrato di sorveglianza procedere ad  una  proroga
della misura di sicurezza nell'ambito dello speciale procedimento  di
riesame di pericolosita' sociale previsto dall'art. 208  c.p.,  norma
attualmente in vigore e da  ritenersi  non  abrogata  implicitamente,
procedura  che  rende  in  concreto  ineffettiva  anche   la   tutela
risarcitoria. 
    In primis appare evidente la violazione  dell'art.  3  Cost.  dal
punto  di  vista  soggettivo,   stante   l'evidente   disparita'   di
trattamento tra detenuto ed internato, in relazione  all'art.  35-ter
o.p., sia dal punto di vista oggettivo. 
    Sotto  il  primo  profilo  rileva  l'impossibilita'.   da   parte
dell'internato di azionare il rimedio giurisdizionale di cui all'art.
35-ter  o.p.,  laddove  invece   tale   facolta'   e'   espressamente
riconosciuta al detenuto, potendo invece l'internato  esperire  tutti
gli altri rimedi previsti dagli articoli 14-ter, 35-bis e  69,  comma
6, o.p. 
    Sotto il profilo oggettivo emerge un chiaro contrasto  tra  l'art
35-ter o.p. e l'art.  1,  comma  2,  decreto-legge  26  giugno  2014,
convertito in legge 11 agosto 2014, n. 117. Tale ultima disposizione,
di natura transitoria, ha regolato il regime della proponibilita' dei
ricorsi ex art. 35-ter con quelli gia' pendenti  alla  Corte  europea
dei diritti dell'uomo per violazione dell'art. 3 Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali presentati dai detenuti e dagli internati.  Il  comma  2
dell'art. 1 del decreto-legge 92/2014 ha precisato che  i  ricorrenti
CEDU, siano essi detenuti o internati, possono proporre il reclamo ai
sensi dell'art. 35-ter o.p. innanzi al  giudice  nazionale  entro  il
termine di decadenza di sei mesi dalla data di entrata in vigore  del
decreto-legge 92/2014 citato purche' entro il  predetto  termine  non
sia intervenuta una pronuncia della  Corte  sulla  ricevibilita'  del
ricorso stesso. 
    La discrasia del sistema emerge quindi non solo dalla  disparita'
di trattamento tra detenuti  ed  internati,  da  un  lato,  ma  anche
all'interno degli stessi internati,  ricorrenti  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali e non, potendo solo i primi e non i  secondi  presentare
reclamo ex art 35-ter o.p. alle condizioni prima precisate  (rispetto
del termine di decadenza e mancata pronuncia della Corte europea  dei
diritti dell'uomo sulla ricevibilita' del reclamo). 
    Appare  altresi'  violato  il  principio   costituzionale   della
necessaria tutela giurisdizionale dei diritti ed interessi  legittimi
previsto dall'art. 24 Cost. poiche' per gli internati non  ricorrenti
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali  non  e'  previsto   uno   specifico   rimedio
compensativo nel caso di violazione - attuale e  non  -  dell'art.  3
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali subita  in  costanza  di  misura  di  sicurezza
detentiva. 
    Invero, come l'ergastolano, anche l'internato  non  gode  di  una
pena residua da espiare, non potendosi in nessun modo  in  tal  senso
intendere la scadenza della misura di sicurezza, di per se'  soggetta
al  buon  esito   del   riesame   periodico   sull'attualita'   della
pericolosita' sociale. Di qui l'impossibilita' di liquidare una somma
a titolo di risarcimento del danno,  liquidazione  che  presuppone  -
come gia' detto - una pena detentiva da espiare inferiore a quella da
ridurre, cioe' incapiente. 
    Risulta altresi' violato il parametro di cui  all'art.  25  Cost.
nella misura in cui l'internato viene privato  del  giudice  naturale
precostituito per legge - il magistrato  di  sorveglianza  -  per  la
tutela  dei  propri  diritti  in  costanza  di  misura  di  sicurezza
detentiva. 
    Infine risulta violato l'art. 117, comma 1 Cost., nella misura in
cui la normativa nazionale cristallizzata nell'art. 35-ter o.p, viola
i parametri sub-costituzionali (sent. Corte Cost n. 348/2007) (3)  di
cui agli articoli 3 (proibizione della tortura) (4) 6 (diritto ad  un
equo processo) (5) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo)  (6)  CEDU.
Con stretto riferimento  ai  principi  convenzionali,  assunti  quali
parametri interposti  cui  la  norma  appare  in  conflitto,  occorre
altresi'  richiamare  pronunce  della  Corte  europea   secondo   cui
l'esecuzione di una sentenza, da qualsiasi parte promani, deve essere
considerata come facente  parte  integrante  del  processo  ai  sensi
dell'art. 6 Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (Immobiliare Saffi c. Italia,
n. 22773/93; Hornsby c. Grecia del 19 marzo  1997).  L'art.  6  della
Convenzione e' posto a garanzia, oltreche' del  corretto  svolgimento
del processo, anche dell'effettivita' della sua fase esecutiva. 
    L'attuale  assetto  dell'art.  35-ter   o.p.,   non   menzionando
l'internato tra i legittimati ad causam  ne'  prevedendo  un  rimedio
risarcitorio diretto, appare lacunoso, e,  data  la  rilevanza  della
questione, sussitono in definitiva ragioni di contrasto  della  norma
contenuta nell'art. 35-ter o.p., con gli artt. 3, 24, 25 e 117, comma
1 Cost., in quanto tale, necessitante di un intervento additivo della
Corte volto ad inserire l'internato tra i legittimati ad esperire  il
reclamo ex art.  35-ter  o.p.,  e  quale  conseguenza,  nel  caso  di
fondatezza della domanda, la riduzione della durata della  misura  di
sicurezza e/o il ristoro pecuniario a titolo di rimedio risarcitorio.
Tale soluzione prospettata e' l'unica che  consenta  di  ripristinare
una condizione di legalita' nell'ambito dell'esecuzione della  misura
di sicurezza detentiva nel caso di accertato trattamento inumano  e/o
degradante. Trattasi invero di una decisione  che  sembra  costituire
un'attivita' che non eccede i limiti di intervento della Corte e  che
non implica scelte affidate alla  discrezionalita'  del  legislatore,
potendo la Corte riempire  la  lacuna  normativa  facendola  derivare
implicitamente dal sistema esistente (cfr.  Corte  costituzionale  n.
113/12 del 18 aprile 2012). In definitiva  questo  modo,  si  ripete,
verrebbero  meno  le  discriminazioni  fra  detenuti   ed   internati
nell'ambito della loro tutela riconosciuta dalle  leggi  nazionali  e
sovranazionali. 

(1) Misura iniziata in data 8 dicembre 2011, prorogata  di  mesi  sei
    con ordinanza del Magistrato di sorveglianza dell'Aquila  del  23
    maggio 2013 e di ulteriori anni 1 e mesi 6 giusta  ordinanza  del
    Magistrato di sorveglianza di Padova del 24 ottobre 2013. 

(2) A norma del quale: «le misure di sicurezza detentive  provvisorie
    o  definitive,  compreso  il   ricovero   nelle   residenze   per
    l'esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare  oltre
    il tempo stabilito per la pena detentiva prevista  per  il  reato
    commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima». 

(3) Ai paragrafi 4.6. e seguenti della citata  sentenza  n.  348/2007
    della  Corte  costituzionale,  si  legge:   «Poiche'   le   norme
    giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori
    del diritto, i giudici in primo luogo,  la  naturale  conseguenza
    che deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della  Convenzione  e'  che
    tra  gli  obblighi  internazionali  assunti  dall'Italia  con  la
    sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi e' quello di  adeguare
    la  propria  legislazione  alle  norme  di  tale  trattato,   nel
    significato attribuito dalla Corte specificamente  istituita  per
    dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si puo' parlare
    quindi di una competenza  giurisdizionale  che  si  sovrappone  a
    quella degli organi giudiziari dello Stato italiano,  ma  di  una
    funzione interpretativa eminente che gli Stati  contraenti  hanno
    riconosciuto  alla  Corte  europea,  contribuendo  con   cio'   a
    precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia.
    4.7. - Quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU,
    quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza
    delle nonne costituzionali e sono percio' immuni dal controllo di
    legittimita' costituzionale di questa Corte. Proprio  perche'  si
    tratta di norme che integrano  il  parametro  costituzionale,  ma
    rimangono  pur  sempre  ad  un  livello  sub-costituzionale,   e'
    necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare
    natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie  sia
    da  quelle   concordatarie,   fa   si   che   lo   scrutinio   di
    costituzionalita' non possa limitarsi alla possibile lesione  dei
    principi e dei diritti fondamentali (ex plurimis, sentenze n. 183
    del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73  del  2001,  n.
    454 del 2006) o dei principi supremi (ex plurimis, sentenze n. 30
    e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175. del 1973, n. 1
    del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18  del  1982,  n.  203  del
    1989), ma debba estendersi ad ogni profilo di  contrasto  tra  le
    «norme interposte» e quelle  costituzionali.  L'esigenza  che  le
    norme che integrano il parametro di costituzionalita' siano  esse
    stesse conformi alla Costituzione e' assoluta e inderogabile, per
    evitare il paradosso che una nonna legislativa  venga  dichiarata
    incostituzionale in base ad un'altra nonna sub-costituzionale,  a
    sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di  ogni
    questione nascente da pretese contrasti tra  norme  interposte  e
    norme legislative interne, occorre verificare  congiuntamente  la
    conformita'  a  Costituzione  di  entrambe  e   precisamente   la
    compatibilita' della norma interposta con la  Costituzione  e  la
    legittimita' della norma censurata  rispetto  alla  stessa  norma
    interposta». 

(4) Articolo  3  Proibizione  della  tortura:  «Nessuno  puo'  essere
    sottoposto  a  tortura  ne'  a  pene  o  trattamenti  inumani   o
    degradanti». 

(5) Articolo 6 CEDU Diritto a un equo processo «l.  Ogni  persona  ha
    diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente
    ed entro un termine ragionevole da un  tribunale  indipendente  e
    imparziale,  costituito  per  legge,  il  quale  sia  chiamato  a
    pronunciarsi sulle controversie sui  suoi  diritti  e  doveri  di
    carattere  civile  o  sulla  fondatezza  di  ogni  accusa  penale
    formulata nei  suoi  confronti.  La  sentenza  deve  essere  resa
    pubblicamente, ma  l'accesso  alla  sala  d'udienza  puo'  essere
    vietato alla stampa e al  pubblico  durante  tutto  o  parte  del
    processo nell'interesse  della  morale,  dell'ordine  pubblico  o
    della sicurezza nazionale in una societa' democratica, quando  lo
    esigono gli interessi dei  minori  o  la  protezione  della  vita
    privata  delle  parti  in  causa,  o,  nella   misura   giudicata
    strettamente necessaria  dal  tribunale,  quando  in  circostanze
    speciali la pubblicita' possa portare pregiudizio agli  interessi
    della giustizia. 2. Ogni persona accusata di un reato e' presunta
    innocente fino  a  quando  la  sua  colpevolezza  non  sia  stata
    legalmente accertata. 3. In particolare, ogni accusato ha diritto
    di: (a) essere informato, nel piu' breve tempo possibile, in  una
    lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura  e
    dei motivi dell'accusa formulata a suo carico; (b)  disporre  del
    tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;
    (c) difendersi personalmente o avere l'assistenza di un difensore
    di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire  un  difensore,
    poter essere assistito gratuitamente da  un  avvocato  d'ufficio,
    quando lo esigono gli interessi della giustizia; (d) esaminare  o
    far esaminare i testimoni a carico e ottenere la  convocazione  e
    l'esame dei testimoni a discarico  nelle  stesse  condizioni  dei
    testimoni a carico;  (e)  farsi  assistere  gratuitamente  da  un
    interprete se non comprende  o  non  parla  la  lingua  usata  in
    udienza». 

(6) Articolo 13 CEDU Diritto a un ricorso effettivo «Ogni  persona  i
    cui  diritti  e  le  cui  liberta'  riconosciuti  nella  presente
    Convenzione  siano  stati  violati,  ha  diritto  a  un   ricorso
    effettivo  davanti  a  un'istanza  nazionale,  anche  quando   la
    violazione  sia  stata   commessa   da   persone   che   agiscono
    nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali».